domenica 30 gennaio 2011

Pensiero culinario: Seppia,Verza, Vapore e...Vino

Capita, di rado, ma capita che un amico ti voglia onorare di un regalo. E gli amici conoscono i gusti degli amici e allora ti arriva una confezione di un bel bianco piemontese della zona del Gavi. Un cortese al 100% ad etichetta Podere Saulino. Non sarò io a giudicare questo delizioso bianco secco, ha ricevuto tante premiazioni che il mio giudizio nulla toglierebbe e nulla aggiungerebbe al blasone dell'etichetta. Credo che il modo migliore per onorarlo sia quello di creare una pietanza che ne riveli non tanto le note fruttate dell'incipit, tanto quelle se ne vanno subito, quanto il sentore olfattivo e gustativo della mandorla amara che quando domina è terribile ma quando è in sottofondo è tanto capace di esaltare le sensazioni della papilla e del retrolfatto.

E dunque siamo a ridosso dei giorni della merla, tra qualche giorno è febbraio e la pesca della seppia raggiunge, per un paio di mesi, il suo culmine. Ci occorre una seppia (o due) freschissima e di dimensioni non minuscole, diciamo di un 25-30 cm di lunghezza testa esclusa. Se sono due anche di 15-20 cm. Poi ci occorrono dei filetti di spigola o di nasello o di merluzzo, diciamo 150 grammi e due cucchiai di ricotta di pecora. Sale, pepe nero e una decina di mandorle pelate e tostate. Infine delle foglie di verza.

Separare le sacchette di nero dalla seppia senza romperle, pulire per bene la seppia tenendola intera. Lavarla e asciugarla all'esterno e all'interno.

Frullare i filetti di pesce con la ricotta, il nero della seppia e le mandorle. Salare e pepare il composto che deve essere morbido e compatto. Se dovesse risultare troppo liquido addensare con un cucchiaio di pane grattugiato finissimo e tostato.

Con questo composto riempire la seppia avendo cura di ripiegare i tentacoli lunghi (se non ve li siete già mangiati crudi come faccio io) all'interno del corpo. Se abbiamo fatto un buon lavoro possiamo porre la seppia con la pancia aperta su una foglia di verza e porre sul dorso un'altra foglia di verza, mettere tutto nella vaporiera e cuocere a vapore per una decina di minuti, anche quindici se necessario. In realtà la foglia di verza superiore cotta significa che è cotta pure la seppia.

Si serve su letto di insalata riccia accompagnando con carote al vapore. Condire con un filo di Olio Extra Vergine di Oliva.

Alcune osservazioni sono necessarie. Se la seppia non è freschissima lasciate perdere questa preparazione. Per il ripieno va benissimo il pesce congelato. La ricotta di pecora può esser sostituita con della panna da cucina, perché la ricotta di pecora deve anch'essa esser freschissima.

E chi non ama la verza può usare delle foglie di insalata ma non sa che si perde.

Ecco, credo che questo eccellente Gavi abbia trovato un'ottima compagnia, e io un'ottima cena.(di Pino De Luca,Nuovo Quotidiano di Puglia"La dolce Vita")

domenica 23 gennaio 2011

Pensiero poetico

Questo passo

Devota come ramo
curvato da molte nevi
allegra come falò
per colline d'oblio,

su acutissime làmine

in bianca maglia d'ortiche,
ti insegnerò mia anima,
questo passo d'addio...

Cristina Campo


mercoledì 12 gennaio 2011

L'opinione:Vicolo cieco in Medio Oriente di Noam Chomsky

Mentre è impegnato a espandere illegalmente le colonie ebraiche in territorio palestinese, il governo israeliano cerca anche di affrontare due problemi: una campagna d’opinione internazionale che Israele considera una “delegittimazione” – cioè criticare i suoi crimini – e un’altra campagna parallela di legittimazione della Palestina.

La “delegittimazione” ha fatto un passo avanti a dicembre, quando Human rights watch ha invitato Washington a “ridurre i finanziamenti a Israele per una cifra corrispondente al costo del sostegno israeliano agli insediamenti”.

L’organizzazione ha chiesto anche di controllare quali contributi esentasse versati da gruppi statunitensi a Israele finanzino violazioni del diritto internazionale. Anche il processo di legittimazione ha compiuto un passo in avanti a dicembre, quando Argentina, Bolivia e Brasile hanno riconosciuto lo Stato di Palestina (Gaza e Cisgiordania), portando a più di cento il numero delle nazioni che lo sostengono.

Secondo il giurista internazionalista John Whitbeck, l’80-90 per cento della popolazione mondiale vive in paesi che riconoscono la Palestina, mentre solo il 10-20 per cento vive in stati che riconoscono il Kosovo. Ma siccome gli Stati Uniti riconoscono il Kosovo e non la Palestina, i mezzi d’informazione di tutto il mondo trattano le due realtà in modo totalmente diverso.

Considerata la scala degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, da dieci anni si dice che un accordo internazionale basato su una soluzione a due stati è impossibile (anche se la maggior parte del mondo la pensa diversamente). Quindi chi ha a cuore i diritti dei palestinesi dovrebbe sperare che Israele occupi tutta la Cisgiordania e che poi una lotta antiapartheid di tipo sudafricano faccia ottenere la piena cittadinanza alla popolazione araba.

Questa tesi presume che anche Israele vorrebbe l’annessione. Invece è molto più probabile che Israele voglia incorporare una buona metà della Cisgiordania, senza assumersi responsabilità sul resto.

Così risolverebbe il “problema demografico” – troppi non ebrei nello stato ebraico – e nel frattempo taglierebbe fuori l’assediata Gaza dal resto della Palestina. Ma l’analogia tra Israele e il Sudafrica è interessante. Una volta creato l’apartheid, i nazionalisti sudafricani bianchi si resero conto che stavano diventando uno stato paria della comunità internazionale.

Nel 1958 il ministro degli esteri informò l’ambasciatore statunitense che la condanna dell’Onu non avrebbe avuto importanza finché il Sudafrica avesse avuto il sostegno degli Stati Uniti.

Durante gli anni settanta l’Onu impose un embargo sulle armi, seguito da campagne di boicottaggio e di disinvestimento. Il Sudafrica reagì con il preciso intento di far infuriare l’opinione pubblica internazionale, con sanguinosi raid militari nei campi di rifugiati dei paesi vicini. Le analogie con il comportamento di Israele oggi sono impressionanti. Basti pensare all’attacco a Gaza del gennaio 2009 e a quello alla Gaza freedom flotilla del maggio 2010.

Quando Ronald Reagan diventò presidente nel 1981 garantì pieno appoggio al Sudafrica e all’apartheid. E nel 1988 l’African national congress di Nelson Mandela fu definito da Washington “uno dei più noti gruppi terroristici”.

Poco tempo dopo, però, la politica americana cambiò. Gli Stati Uniti e il Sudafrica capirono che i loro interessi finanziari sarebbero stati avvantaggiati dalla fine dell’apartheid. E così il sistema collassò rapidamente. Il Sudafrica non rappresenta l’unico caso recente in cui la fine del sostegno statunitense a un crimine ha portato a progressi significativi.

Un cambiamento potrebbe avvenire anche nel caso di Israele? Tra gli ostacoli più consistenti ci sono gli stretti legami militari e di intelligence tra gli Stati Uniti e Israele. Il più esplicito sostegno ai crimini israeliani viene infatti dal mondo degli affari. L’industria high-tech statunitense è connessa con la sua controparte israeliana e in questo campo la collaborazione è strettissima.

Inoltre in ballo ci sono fattori culturali importanti. Il sionismo cristiano precede di molto quello ebraico, e non è limitato a quel 30 per cento di americani che crede nella verità letterale della Bibbia. Esprimendo un punto di vista già allora diffuso nell’élite statunitense, Harold Ickes, segretario agli interni di Franklin Delano Roosevelt, descrisse la colonizzazione ebraica della Palestina come un traguardo “senza precedenti nella storia della razza umana”.

Esiste inoltre una solidarietà istintiva degli statunitensi verso una società fondata sugli insediamenti coloniali, vista come una replica della storia americana da un’ottica imperialista.

Per uscire dall’impasse è necessario abbattere l’illusione per cui gli Stati Uniti sono un “onesto intermediario” che cerca di riconciliare tra loro avversari recalcitranti, e ammettere che un negoziato vero dovrebbe essere condotto con Israele e Stati Uniti da una parte e il resto del mondo dall’altra. Se i centri di potere statunitensi saranno costretti dai cittadini a riconoscere la Palestina, molte speranze che oggi sembrano remote potrebbero diventare realizzabili.(trad.A.Sparcino,da internazionale.it)

martedì 4 gennaio 2011

Arriva la Befana...

Tra qualche giorno la vecchia signora che dispensa cose buone ai bimbi buoni e cenere e carbone ai fanciulli cattivi si porta via le “festività natalizie”. Un altro anno si è chiuso, gli auguri per il prossimo si sono scambiati, i regali pure e anche qualche grande abbuffata.

Ho il privilegio di conoscere tante persone, tutte assiepate su gradini diversi della scala sociale, alcune in alto in alto altre in basso in basso. Alcune felici per aver ricevuto dei dolci e una bottiglia di Melarosa o di Brindeasy (quest'anno solo prodotti salentini ho regalato) altri che hanno apprezzato un Donna Lucia del 2006 o un Divoto del 2000.

In tutti, ma proprio in tutti, c'è un denominatore comune: la festa si gode pienamente ma con l'occhio a domani. Preoccupazione e insicurezza sono il denominatore comune del mio ca

mpione di riferimento. In qualche caso anche senza soverchie giustificazioni a tanta ansia.

Lo scrivono e lo dicono in tanti, in troppi: il domani è più un problema che una speranza

. Lo ha rammentato perfino il Presidente Napolitano ricevendo il solito, inutile, stucchevole plauso ecumenico. Una comunità nazionale che ha attraversato la lunga stagione dell'egoismo (quasi trent'anni) individualista e che ora, di fronte ai giganteschi problemi che la normale evoluzione pone, si sente impotente e fragile.

E capisce che non è una percezione. La società che ha riscritto il vocabolario, che ha inventato i diversamente abili e gli ipovedenti, i Lodi e il legittimo impedimento, l'impresa delocalizzata e la finanza creativa in nome di un tutto che progredisce grazie al progresso dei singoli sa che questa storia del reale e del percepito è una balla per allocchi. Sa che le difficoltà non sono percepite ma reali. Procedere contronatura, da individui piuttosto che da società, ha disabituato al lavoro collettivo, al sacrificio di una parte di se per il bene comune. Come leggere diversamente il NIMBY, o la tutela di privilegi corporativi durissimi da estirpare?

La vecchia signora a cavallo di una scopa si porta via le feste e non sarò io a infestare quest'ultimo scampolo di relax rivangando un anno orribile e l'orribile inizio di quest'altro. Solo alcuni vecchi cialtroni rimbambiti e alcuni giovani cortigiani scoppiati di coca continuano a dire che tutto va bene madama la Marchesa.

Noi che sapevamo che così non era, che non siamo stati creduti allora, abbiamo av

uto il tempo per cercare di enunciare una exit strategy. Come al solito ve ne sono diverse. La prima, la più semplice di tutte, è una bella guerra tra uomini che faccia 3-400 milioni di morti (percentuale di popolazione come fu quella della II Guerra Mondiale) e che, liberato lo spazio, t

rascini verso la ripresa i sopravvissuti con il loro carico di ottimismo, le risorse da spartire e le teorie sulla pace per sempre che tanto spopolano dopo un conflitto terribile e tanto scemano passato il ricordo.

Via che sarebbe anche percorribile se non fosse che non si è in grado di sapere da che parte ci saranno le vittime...

Poi c'è un'altra strada, quella di una guerra tra futuro e passato, di un conflitto perm

anente tra le riparazioni che occorre fare e i danni che si sono fatti. Di un ricostruzione seria dell'am

biente, delle condizioni di vita sociale ed economica delle popolazioni dell'intero pianeta. Di una ricerca e di una tecnologia da ampliare per migliorare la vita di tutti piuttosto che il dominio di alcuni.

La strada buona non è difficile comprenderla, più essa include più ci si avvicina alla felicità. Più essa esclude maggiore è la diffusione della sofferenza. Non sono un santo. Solo un semplice deduttore: la sofferenza produce rabbia e la rabbia produce violenza. Se si sceglie la via dello scontro e della sopraffazione, magari utilizzando armi e potere, si deve sapere che questa non dura per sempre e poi non ci si deve lamentare se si va finire appesi a testa in giù.

Le risorse del mondo, nel tempo di una vita, sono limitate. Se diamo loro la possibilità di rinnovarsi possono soddisfare anche chi viene dopo. Bisogna consumare risorse ad una velocità minore o uguale a quella con la quale si riproducono e bisogna distribuirle in forma più equa, questo è tutto. Esiste un capitalismo capace di fare questo? Trovatelo, altrimenti, se il capitalismo è quello che conosciamo la Befana porterà qualcosa e ma non si porterà via le preoccupazioni. E potrebbe accadere che, fra qualche tempo, la Befana porti caramelle ad alcuni e corda saponata ad altri ...(Pino De Luca)

Citazionando...

"La speranza è una buona prima colazione,
ma una pessima cena"

(F.Bacone)